Thailandia. Il balsamo del Vangelo risana le piaghe più nascoste
Tornato in Italia dopo una vita da fidei donum in Thailandia, don Attilio Di Battisti ci racconta come ha annunciato il Vangelo in un ambiente buddhista. La cura dei tossicodipendenti e dei disabili, che rimanevano nascosti nei villaggi, ha parlato al cuore di una cultura così diversa dalla nostra.Villaggi lontani, sparsi sulle montagne del Nord-ovest della Thailandia, da raggiungere col fuoristrada. Comunità di tribali appartenenti ad un mosaico di etnie minoritarie – Kachin, Kayah, Chin, Bamar, Mon, Rachine – che si spostano lungo quest’area di confine tra Laos e Myanmar, al di sotto della zona del “Triangolo d’oro”. Questo lo scenario della missione di don Attilio Di Battisti, per 12 anni presso la diocesi di Chiang Mai (400mila abitanti sparsi su 4.500 chilometri quadrati), come fidei donum della diocesi di Padova. Di Battisti, 57 anni, è rientrato in Italia lo scorso febbraio e ora è parroco della comunità a cavallo tra Cittadella e Tezze sul Brenta. Un compito che riveste con l’esperienza di chi è stato missionario prima in Ecuador dal 1991 al 2003 e poi in Thailandia dal 2008, dividendosi tra le due sedi di Lamphun e Chaehom. «La missione di Lamphun è nata nel 2000 – spiega don Attilio – come risposta dei vescovi del Triveneto all’invito di san Giovanni Paolo II di porre attenzione all’Asia, il continente dell’evangelizzazione del XXI secolo. La presenza dei diocesani è stata all’epoca una novità assoluta ed è stata possibile grazie al sostegno di più diocesi che hanno inviato finora una decina di sacerdoti».
All’inizio dell’esperienza i missionari sono entrati in Thailandia come operatori sociali con incarichi di assistenza alle minoranze etniche non integrate: «Nei primi anni noi missionari abbiamo svolto un ruolo importante nell’affiancare le minoranze nei percorsi di regolarizzazione, per la scolarizzazione e l’inserimento sociale. Ci siamo impegnati anche sul fronte del recupero dei tossicodipendenti dall’oppio.
Ai nostri centri arrivavano le famiglie che dovevano disintossicarsi e mentre erano in isolamento, ci prendevamo cura e facevamo studiare i bambini.
Agli adulti insegnavamo anche come impiantare alberi da frutto e colture alternative a quella dell’oppio». Col tempo, gradualmente la presenza dei missionari si è consolidata sulla frontiera dell’evangelizzazione e della cura pastorale alle comunità locali, pur restando sempre in contatto con le istituzioni pubbliche. «Entrando nelle comunità e nelle famiglie abbiamo iniziato ad occuparci anche dei disabili – continua Di Battisti -. Abbiamo visto bambini che non uscivano nemmeno dalle loro capanne su palafitte, tipiche della zona. La visione buddista attribuisce la disgrazia della disabilità ad un karma negativo che si è accumulato, a maledizioni del passato, a capricci degli spiriti, secondo le credenze animiste. Negli anni è stata costruita una struttura di cura con una parte residenziale dedicata ai casi più gravi».
La missione a Lamphun è fatta soprattutto di testimonianza, carità e dialogo interreligioso. Nella zona «eravamo immersi tra centri di meditazione, templi e monasteri buddhisti. È una provincia che ha dato vita ai grandi mistici, santi monaci con uno stile di vita di grande influsso sulla gente. La presenza cattolica non era molto ben vista, ma le nostre attività di promozione umana si.
Il dialogo interreligioso non è facile e i cristiani sono come mosche bianche.
La nostra parrocchia dedicata a San Francesco, contava solo 50 anime».
Nella missione di Chaehom, distante una trentina di chilometri, c’era una situazione diversa: villaggi abitati da diverse etnie e attività formative promosse per i ragazzi dai missionari. Un intenso tessuto di relazioni che ha dato buoni frutti con conversioni di giovani e intere famiglie. Date le distanze e la difficoltà dei diversi dialetti parlati nei villaggi «fondamentale è stato il ruolo dei laici e dei catechisti per avere il contatto con il territorio. Noi sacerdoti dicevamo messa in lingua thai ma capivano in pochi; toccava però al catechista leggere nella lingua locale le letture e fare catechesi in lingua locale. Ancora oggi molti adulti non conoscono la lingua nazionale, parlano i dialetti locali, nonostante le scuole serali». (Miela Fagiolo D’Attilia)
In collaborazione con la Fondazione Missio