24 Giugno 2024

Simona, capolavoro sorridente di un Dio pittore

Nata senza le braccia in una famiglia straordinaria, Simona Atzori (radici sarde, cresciuta in Lombardia) ha sempre valorizzato le sue potenzialità e con i piedi riesce a fare cose inimmaginabili. Laureatasi in “visual arts” in Canada, Simona è ballerina, pittrice e scrittrice e ci ha accolto nella sua casa di Gerenzano (VA) per raccontarsi di fronte alla videocamera di Cristian Gennari.

Sapevo che avrei incontrato una persona straordinaria, ma non avrei mai immaginato che sarebbe venuta a prendermi alla stazione, il giorno della nostra intervista, guidando l’automobile. Nata senza le braccia, Simona Atzori ha iniziato, fin dalla più tenera età, a fare tutto con i piedi. Perfino a guidare, avendo ottenuto l’omologazione per un prototipo fatto apposta per le sue capacità. Oggi è una ballerina affermata, una pittrice conosciuta e una scrittrice apprezzata. Da poco ha compiuto cinquant’anni, ma lo spirito è lo stesso che la sua stupenda famiglia l’ha aiutata a plasmare. Da qualche anno ha perduto la mamma, da pochi mesi anche il papà: non ha perduto, però, un sorriso che incanta e il legame con la sorella Gioia, che per prima le ha trasmesso la passione per l’arte. Di fronte ad una tazzina di caffè, che sorseggia tranquillamente afferrandola col piede, una dopo l’altra risponde alle nostre domande, nella sua casa di Gerenzano, poco più a nord di Milano e già in provincia di Varese.

Scrittrice, pittrice, ballerina. Senza le braccia. Come è possibile, Simona?

Fino a qualche tempo fa pensavo che i miei sogni fossero la danza, la pittura, e dopo anche la scrittura. Ora ho scoperto che il mio sogno più grande, da bambina ma in fondo anche adesso, è quello di essere guardata come una persona che ha qualcosa (le sue abilità, le sue capacità) e non come una persona cui manca qualcosa. L’ho capito fin da bambina, quando le persone cambiavano il loro sguardo quando io iniziavo a danzare, a dipingere. Quello era lo sguardo che io volevo. La danza e la pittura mi hanno offerto l’opportunità, lo strumento perché io potessi essere guardata così.

Quale ruolo ha avuto la tua famiglia, nella tua vita?

La mia famiglia è stata il perno centrale della mia vita. Innanzitutto, mi hanno accolta come un grande dono, anche se non era facile perché la mia nascita è stata una “sorpresa” che ha portato un bel po’ di subbuglio nelle loro giornate. L’amore reciproco tra la mia mamma e il mio papà e quello di mia sorella mi hanno permesso di sentirmi amata e giusta così, ed è stato il dono più grande che mi hanno fatto: mi hanno sempre fatto percepire che “a Simona non mancava qualcosa, ma che la forma di Simona era quella”, con due piedi che facevano le mani. Quando tu da bambina ti senti completa, giusta così, amata e guardata così, tu diventi un valore e quello è il valore che cerchi di portare agli altri. I miei genitori mi hanno insegnato il dono della vita: mi hanno sempre detto che la vita è un dono grande e quando riceviamo un dono grande dobbiamo cercare di trattarlo bene, di farlo fruttare e viverlo con gioia.

Come hai ricevuto il dono della fede?

La mia mamma era una donna di fede, ma una donna concreta: diceva sempre di non credere alla “fede della candela”, quella per cui accendi un cero e aspetti che le cose avvengano. Lei ha mostrato a me e mia sorella che la fede è qualcosa di concreto: è come tu vivi la vita. Io per questo ho sempre amato l’immagine del dono, cioè, che ogni vita sia un dono e che tutti noi siamo stati disegnati in un modo particolare. Perciò ho sempre immaginato un Dio artista, pittore, che ci disegna, come uno schizzo su una tavola bianca e non sbaglia. E mentre disegnava Simona non lo hanno chiamato al telefono, così che si è dimenticato le braccia… Lui mi ha disegnata e ha detto: “Simona è questa, questa è la forma del suo corpo” e i suoi piedi sono particolari, ma non perché sono magici, ma perché appartengono a una persona che ha scelto di vedere quello che ha e non quello che le manca. E poi mi ha dato un bonus grandissimo: uno scarabocchio sulla faccia che si chiama sorriso, che mi ha aiutato e ancora oggi mi aiuta tantissimo.

Che rapporto hai avuto con i sacerdoti che hai incontrato?

Io ho avuto la fortuna di fare amicizia con tanti sacerdoti e religiosi che hanno creduto in me. Fin da bambina c’è stato il prete del mio paese, don Silvano Lucioni, che a quattro anni mi ha fatto fare la mia prima mostra ed è stato il primo che in qualche modo ha creduto in me. O forse sarebbe meglio dire nella pazzia della mia mamma, che a quattro anni mi lasciava dipingere, senza impedirmi di farlo. Io dipingevo oggetti di ceramica e don Silvano li prese e li portò alla festa del paese. Dopo don Silvano però ce ne sono stati tanti altri: in Africa, per esempio, don Gabriele Pipinato e poi tanti amici frati e nominarli tutti sarebbe difficile. Sono persone che hanno visto in me, oltre all’artista, alla ballerina o alla pittrice, qualcuno che poteva in qualche modo raccontare una storia che aveva valore.   

Cosa dici ai molti ragazzi che ti capita di incontrare, dove vieni invitata?

Ai ragazzi mi piace sempre dire che sono speciali, importanti e unici. Spesso da giovani si fa fatica a credere in sé stessi, nelle proprie abilità e nella propria unicità. Si vuole essere un po’ come tutti gli altri, invece è importante che sentano davvero che la loro unicità è parte di quel che possono creare, perché non creeranno qualcosa di uguale a quello degli altri: quel che ciascuno di noi può creare non c’è mai stato prima e non ci sarà mai dopo, per questo è importante che investano in se stessi, nei loro sogni e nelle loro abilità, scoprendo ciò che gli piace, cosa amano, cosa gli fa tremare il cuore e ogni mattina gli dà la forza e il fuoco di svegliarsi. Non sempre si trova, ma si trova se lo cerchiamo e per questo invito i ragazzi a cercare quel fuoco, quella cosa che li rende unici.

(intervista di Stefano Proietti fotografia, riprese, editing di Cristian Gennari)

24 Giugno 2024
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