Dossier. I verbi del Giubileo (2): INCONTRARE
Questo dossier è il secondo di una serie di quattro che abbiamo scelto di dedicare ai verbi del Giubileo. Ci accompagna in questo itinerario don Gianluca Zurra, presbitero della diocesi di Alba, docente di teologia presso la facoltà teologica di Torino e l'ISSR di Fossano (CN).
Una tipica esperienza del Giubileo è il pellegrinaggio, nel suo intreccio di fatica e di gioia che nasce dalla condivisione fraterna lungo il cammino. L’uomo ha gambe e piedi non solo per tenersi in posizione eretta, ma per camminare in avanti. La nostra muscolatura è fatta per poterci muovere, per uscire e incontrare, esattamente come succede durante ogni pellegrinaggio. Non è scontato, però! Ce ne siamo accorti durante il dramma della pandemia, quando esporci alla presenza degli altri e delle cose è divenuto all’improvviso molto pericoloso e riadattarci all’incontro con il mondo ha voluto dire un vero e proprio esercizio di riabilitazione alla vita sociale. Il gesto del cammino, in effetti, come succede per una semplice passeggiata fuori casa o per ogni più piccolo movimento verso gli altri, implica sempre una spinta che viene dalla fiducia, mentre ci blocchiamo quando, per timore, tendiamo a voler controllare tutto in anticipo. Camminare è dunque il contrario della sicurezza, perché non appena ci mettiamo in movimento andiamo incontro a imprevisti, sorprese, attese che non possiamo sapere prima. La vita non si mette al riparo: si impara vivendo, come d’altronde è successo quando qualcuno ci ha insegnato a camminare senza evitarci le ovvie cadute che ne dovevano conseguire. E ancora di più ce ne siamo accorti quando ci siamo tenuti in equilibrio per la prima volta sulla bici senza rotelle: il grande Einstein diceva che “la vita è come andare in bicicletta, poiché per restare in equilibrio devi muoverti”.
Le gambe e la fede
Le gambe, dunque, hanno a che fare con la fede, principio di sana insicurezza che inizia al difficile equilibrio instabile del cammino. Uscire, muoversi, vuol dire incontrare il mondo, le cose, i viventi, i colori, i paesaggi, e tutto questo ci spiazza perché, dopo ogni uscita, se abbiamo avuto il coraggio di lasciarci aprire gli occhi, non siamo più come prima. Ogni più piccolo incontro, se ancora siamo rimasti umani, ci cambia, ci arricchisce, allarga orizzonti, ci ridimensiona, ci chiede di rivedere le nostre certezze. Quanta sapienza, dunque, nel movimento delle gambe e negli incontri che rende possibili! La paura, la diffidenza, ci “bloccano le gambe”, ci fanno guardare indietro; la fiducia smuove gambe e cuore, facendoci sperimentare che non serve a nulla chiuderci nel nostro ombelico, ma occorre guardare fuori, andare, incontrare, farci aiutare, rispondere con creatività ad una promessa. Gambe e piedi sono un geniale termometro corporeo per misurare la temperatura della fede. Per questo, forse, il pellegrinaggio ha sempre accompagnato l’esperienza credente.
Il vangelo degli incontri
Il vangelo secondo Luca è architettato sulla linea di un lungo pellegrinaggio di Gesù verso Gerusalemme, da cui la Chiesa, a sua volta, uscirà per incamminarsi tra le genti, come racconterà il testo degli Atti degli Apostoli. L’esperienza del Padre che Gesù vive sulla propria pelle passa per la sua singolare disposizione a camminare, lasciandosi toccare dagli incontri che risultano di volta in volta sorprendenti anche per Lui.
Non a caso il testo lucano si distende tra un pellegrinaggio iniziale e uno finale. Il primo è il movimento di Maria, raggiunta dall’angelo, verso la casa di Elisabetta (Lc 2, 39-45). Quel viaggio, non facile, è una “seconda annunciazione”, perché la madre di Gesù inizia a comprendere meglio che cosa sta accadendo nel grembo attraverso l’abbraccio e il dialogo con la cugina. Incontrare, qui, è affidarsi ad un annuncio che giunge da un’altra voce. Non basta l’angelo, ma occorre che la giovane donna di Nazaret esca, condivida, si lasci raggiungere da una parola che può farsi strada solo in questo gioco di gambe, di piedi, di sguardi, di grembi gravidi. Senza uscita da noi stessi e senza incontri fraterni anche la voce di Dio rischia di essere fraintesa, o di non poter risuonare come voce di un Altro che chiama a libertà.
Il pellegrinaggio di cui si parla verso la conclusione del vangelo di Luca permette, invece, a due discepoli impauriti di riconoscere poco per volta il Signore Risorto (Lc 24, 13-35). Il sentiero verso Emmaus accomuna i piedi dei due compagni smarriti e i piedi dello “straniero” che si accosta camminando con loro. Certo, la coppia triste si muove dapprima senza una meta, poi è l’incontro con le Scritture, la condivisione del pasto e, infine, la fraternità ritrovata a rendere sciolta la loro camminata e lo sguardo finalmente consapevole. Sappiamo come è andata a finire, ma qui ciò che in realtà sorprende è che il Risorto stesso non può farsi riconoscere, non troverebbe le parole per manifestarsi, se non mettendosi Lui, in prima persona, in pellegrinaggio con i discepoli. Scopriamo così che camminare e incontrare sono prerogative proprie del Vivente, che mettendosi in cammino ci permette ogni volta di tornare a sperare con fiducia. L’incontro, quel giorno a Emmaus, è stato nuovo per i due compagni di strada, ma lo è stato contemporaneamente anche per Gesù. Che i tre si siano riconosciuti appieno per la prima volta proprio in quel momento? Pur avendo vissuto ben tre anni insieme lungo le strade della Galilea? Quante relazioni, in effetti, rischiano di essere soltanto incroci, ma non incontri reali e profondi! Per incontrare Gesù non basta esserne stati fisicamente contemporanei, altrimenti saremmo tutti destinati ad essere solo discepoli di seconda mano, ma come è accaduto quel giorno verso Emmaus occorrono pellegrinaggi interiori e molteplici ritorni su sentieri già percorsi per fare dell’incrocio iniziale con il Vangelo un vero e proprio incontro che cambia la vita. Per questo fino alla fine e fino in fondo, anche da Risorto, il Figlio di Dio prende sul serio la sapienza del verbo “incontrare”, perché lui stesso vive dall’eternità e per sempre se non di incontri che generano fiducia.
Un anno per incontrare
Non è detto che in questo anno giubilare tutti andremo in pellegrinaggio a Roma. Alcuni di noi lo faranno, molti altri vivranno questa esperienza nelle chiese diocesane o vicino a casa. L’importante è che accadano incontri veri, non frettolosi, non puramente strumentali e finalmente liberi da logiche prestazionali. Possiamo sentirci in pellegrinaggio anche quando ci rechiamo al lavoro e proviamo a rendere la nostra professione giusta e umana, o quando con coraggio, invece di usare sempre e soltanto il cellulare, decidiamo di cambiare i programmi per andare di persona da qualcuno che ha bisogno di noi, senza ridurre ogni relazione a veloci e pallidi messaggi su una chat. Con queste parole Josep Maria Esquirol descrive il gesto del cammino che fa incontrare la vita reale: “Una delle lezioni spontanee del camminare su un umile sentiero di campagna è che, per pensare se stessi, non c’è bisogno di ossessionarsi troppo nell’introspezione dell’interiorità. L’interiorità, opposta all’esteriorità, non è la chiave giusta per comprendere il nostro vivere. Il sentiero su cui camminiamo sì. Il sentiero è aperto e al tempo stesso invita al raccoglimento … Camminare sul sentiero, che unisce cielo e terra, porta al raccoglimento. E sapersi raccogliere mostra una maturità spirituale che non ha niente a che vedere con la chiusura solipsistica. Raccogliersi vuol dire non ritrovarsi dispersi o confusi in movimenti di massa che depersonalizzano. Ci si può raccogliere nella cella di un monastero o camminando su un sentiero di campagna. Sia la cella, attraverso la finestra, sia il sentiero – esso stesso finestra – sono aperti. Ci si può raccogliere solo nell’apertura delle relazioni fondamentali” (Cfr. J-M. ESQUIROL, La scuola dell’anima. Dalla forma dell’educare alla maniera di vivere, Vita e Pensiero, Milano 2024, p. 154).
Se mettessimo insieme migliaia e migliaia di incontri così, veri e propri pellegrinaggi moltiplicati a dismisura nell’ordinario, il Giubileo avrebbe già prodotto frutti abbondanti e le molteplici strade dei nostri giorni tornerebbero ad essere più umane e vivibili: non campi minati da cui difendersi, ma sentieri che accompagnano piedi e gambe agli innumerevoli incontri sorprendenti che aprono alla vita, vere e proprie soglie attraverso cui passa il delicato soffio di Dio.
Gianluca Zurra