Dal Vesuvio al Tacanà: l’uomo di Dio che asciuga le lacrime
Testimone di una sofferenza difficile perfino da raccontare, don Angelo Esposito, 50enne fidei donum dell'arcidiocesi di Napoli nel lontano Guatemala, ha condiviso con noi alcuni struggenti racconti di quel che ha vissuto (e sta vivendo) in questi anni di missione. Situazioni che si possono leggere con occhi di speranza solo alla luce della fede.«Dal Vesuvio al Tacanà il passo non è stato breve, anzi. Da un vulcano all’altro, da un continente all’altro c’è tutta la mia storia di missionario fidei donum da 15 anni in Guatemala». Don Angelo Esposito nato a San Sebastiano al Vesuvio nel 1973, è stato inviato dalla diocesi di Napoli a quella di San Marcos, prima a Tajumulco dal 2009 al 2011 e poi a Tacanà, una cittadina vicina al confine col Messico, dove è impegnato nella pastorale della prima infanzia.
Il Guatemala è un Paese piuttosto piccolo, con una superficie pari a circa un terzo di quella dell’Italia, con 16 milioni di abitanti e ben 37 vulcani sul suo territorio. «Mi sono sentito chiamato alla missione ancora prima di entrare in Seminario – spiega don Angelo, con l’accento partenopeo mescolato a parole di spagnolo -. In pratica ero missionario già a Napoli». Poi nel 2009 è iniziata la missione in Guatemala, in un’area rurale lontana dalla capitale Città del Guatemala, nel contesto della cultura indigena dei Mam, discendenti del popolo Maya.
La parrocchia di don Angelo a Tacanà si estende su un territorio di 300 chilometri quadrati con 135mila abitanti, e per raggiungere alcune comunità ci vogliono due ore di macchina. Gli abitanti sono all’80% cattolici e «la povertà è la piaga di tante famiglie che vivono con meno di tre euro al giorno – spiega -. In questa regione si tocca con mano l’abissale differenza tra i pochi ricchi del Guatemala (che dispongono di 500 euro al giorno) e l’80% della popolazione che riesce a sopravvivere con pochi centesimi. L’80% delle terre fertili del Guatemala è in mano ai latifondisti, solo il 20% è della popolazione. Quando sono arrivato sono rimasto colpito dalla miseria in cui vivono tanti bambini, i più indifesi e semplici».
Le morti dei bambini per fame sono pugni nello stomaco, dice il missionario napoletano: «Un giorno sono andato a visitare una famiglia in una baracca fatiscente. Non c’era nulla da mangiare, i bambini erano magrissimi. Qualche giorno dopo vidi un anziano della famiglia che passava davanti alla parrocchia con uno scatolone sotto il braccio. Una catechista me lo indicò: “Guarda c’è don Domingo. Vede lo scatolone? Dentro c’è quel bambino che abbiamo visto l’altro giorno. Lo sta portando al cimitero”. Quando la povertà è così grande non ci sono soldi nemmeno per comprare una bara.
Tutta questa povertà nasce dall’ingiustizia sociale, dalla cattiva distribuzione della terra, del lavoro, delle risorse. In Guatemala il 49,6% dei bambini sono malnutriti con gravi conseguenze per lo sviluppo psicofisico. Poi l’ignoranza e la scarsa scolarizzazione fanno sì che queste persone siano destinate soprattutto ai lavori manuali, a servizio di un padrone. Se avessero una formazione e fossero in grado di reclamare i loro diritti, tutto sarebbe diverso».
In Guatemala la popolazione rurale è più del 60% di quella attiva e l’agricoltura rappresenta un quarto del prodotto nazionale lordo e quasi la totalità delle esportazioni. Il terreno vulcanico produce frutta squisita, soprattutto meloni, banane, mango che vanno negli Stati Uniti. Ma i profitti vanno ai latifondisti mentre i campesinos guadagnano l’equivalente di tre euro al giorno. Anche i bambini fanno parte di questo business perché molti vengono mandati, già in tenerissima età, nei campi a raccogliere frutta.
«Il Guatemala è il Paese dell’America Latina con la più alta percentuale di lavoro minorile – spiega don Angelo -. Nelle famiglie i figli sono una gioia ma anche “forza lavoro” che, appena è possibile, viene messa all’opera. Nelle zone rurali a quattro anni vengono mandati a pascolare le pecore o a raccogliere la frutta, a 10 sono già sotto padrone, nei mercati, o nelle tenute agricole».
Per tanti bambini arrivare a 10 anni è già un traguardo, come racconta il missionario: «Tante mamme che venivano a bussarmi alla porta portavano in braccio un fagotto di stracci: “Padre me lo benedica, prima che io lo seppellisca”. Dentro gli stracci il piccolo cadavere.
Davanti a questo immenso dolore mi sono chiesto: cosa deve fare un missionario? Certo, pregare, ma anche mettere in pratica la Parola di Dio.
Ho compreso l’importanza dell’ascolto dei poveri: sono loro che ti fanno capire che Gesù si incarna in loro e attraverso loro ci interpella, ci fanno capire qual è il lavoro da fare. È nata così la onlus Hermana Tierra, con cui cerchiamo di dare riposte concrete attraverso tre linee di intervento: salute (soprattutto per i bambini malnutriti), progetti per risorse sostenibili, educazione e istruzione». Nel 2012 un ambulatorio abbandonato è stato rimesso in funzione, prima con tre volontari insieme a padre Angelo, e poi è cresciuto fino a diventare l’ospedale Los Angelitos dove oggi, grazie al lavoro di 53 persone – volontari, psicologi, infermieri e medici –, vengono curati 12mila bambini l’anno.
«Sono stato un contenitore di lacrime e disperazione, ma
essere vicino a questa gente mi ha permesso di vincere ogni stanchezza.
È questa vicinanza che rende credibile un missionario e che lo fa riconoscere come uomo di Dio – conclude don Angelo –. Essere missionari significa testimoniare una fede che spera sempre nella Provvidenza, per iniziare ogni giorno un cammino che porta sempre verso l’Amore. Essere missionari è spendere la vita tutta e solo per amore».
(di Miela Fagiolo D’Attilia / foto gentilmente concesse da don Angelo Esposito)