Claudio Baglioni: “Quel ‘dolce sentire’ che dovremmo riscoprire”
Ha appena compiuto settant’anni e rimane uno dei cantautori più amati dagli italiani di ogni età. Claudio Baglioni ci racconta il suo rapporto con la fede e con i preti che hanno segnato il suo cammino.Per il suo settantesimo compleanno, i suoi fan hanno voluto regalarle un bel murales su una parete dell’oratorio di San Felice da Cantalice, a Centocelle. Che effetto le fa?
Un po’ mi imbarazza… ma se mi avessero chiesto dove volevo fosse fatto quel murales, avrei risposto proprio lì: dai frati cappuccini. Lì ho fatto il mio primo concorso da cantante, ancora ragazzino. Ma in quella parrocchia della periferia romana, soprattutto, ho imparato il senso della comunità e della ritualità, il valore del tempo e dei suoi diversi periodi.
Lei è un poeta, con la musica e le parole. Come dipingerebbe la fede?
Come un fuoco. Un fuoco che va alimentato, naturalmente, perché quel percorso non è mai rettilineo. Ma è la fede che mi aiuta quando vedo che non c’è giustizia. Dopo lo sconforto, il turbamento, è lei che mi dà speranza che le cose possano migliorare.
Che ricordi ha della sua infanzia all’oratorio?
Lì a 14 anni ho fatto il catechista e per un po’, non lo nascondo, ho pensato perfino di farmi frate. Non sarei stato un bravo frate, forse, ma ogni tanto ancora ci penso. A quell’epoca gli oratori di periferia erano dei posti di frontiera, che hanno salvato tantissimi ragazzi dal diventare “uomini persi”. Per me, insieme all’esempio e alle parole di mia mamma, quello è stato il luogo dove si è accesa la fiamma della fede.
C’è qualche sacerdote che ha lasciato maggiormente il segno nella sua vita?
Dell’oratorio di San Felice ricordo frate Carlo, le sue mani forti e la sua figura imponente che ci veniva incontro già da lontano. Mi ha fatto effetto, rivedendolo pochi anni fa, rendermi conto che non era poi così gigantesco: ero io che ero piccino, allora. Nel tempo di bravi sacerdoti ne ho incontrati molti altri e so bene che oggi quello del prete non è un ruolo semplice. Qualcuno li vorrebbe relegati solo a dir messa, confessare e benedire. E invece credo sia importante che sappiano essere vicini ai problemi delle persone, mettendosi al loro livello. La Chiesa non può essere solo dogma, deve sapersi fare abbraccio, ascolto, dialogo.
Immagino che allora la figura di Papa Francesco le piaccia molto…
Come puoi non amare un Papa come Francesco, che lava i piedi ai senza fissa dimora? Ho avuto la fortuna di incontrarlo quattro volte, e sono stati incontri bellissimi. Una volta, dopo che aveva celebrato la messa a San Pietro, quando lo vidi arrivare mi sembrava un parroco di campagna, con la sua innata capacità di empatia. Ecco, la sua è veramente una missione.
E la sua professione la vive un po’ come una missione?
Non direi. Io sono solo un cantante, un artista. Io cerco solo di fare meglio che posso il mio mestiere e di dare il mio contributo. A volte anche in qualche battaglia di giustizia, come quelle per l’accoglienza dei disperati che sbarcano dall’Africa. Ho sempre avuto uno speciale legame con l’isola di Lampedusa e non potevo accettare che a pochi metri dalla mia villeggiatura si consumassero tragedie immense. Cantare su quella spiaggia, è sempre un gesto importante, un onore.
A proposito di posti speciali in cui esibirsi… non capita a tutti di poterlo fare in Piazza San Pietro!
È vero! Potermi esibire in piazza San Pietro, è stato un privilegio che ho avuto per ben due volte. La prima fu per il concerto nella notte del passaggio di millennio. Ebbi come la sensazione di camminare sui passi di milioni di pellegrini, dentro un viaggio che era di tutti. Giovanni Paolo II poco prima della mezzanotte si affacciò dalle finestre del suo appartamento, davanti ad oltre 250 mila persone, in un’atmosfera che pure sembrava quella di una veglia famigliare. La seconda volta fu per l’introduzione al concerto “Avrai”. In una Piazza completamente vuota cantavo “Fratello sole e sorella luna”, una canzone che amo molto e che racchiude in sé lo stupore per il Creato.
Perché è così affezionato a quel testo?
Nel tempo che stiamo vivendo abbiamo perso il senso della meraviglia. Abbiamo una presunzione, una smania di onnipotenza che a volte ci porta ad accontentarci di stupidaggini invece di rimanere incantati davanti al Creato. L’enciclica “Laudato sì” ci invita a ritrovare questa attenzione, e mi piace pensare che anche quella canzone possa fare la sua piccola parte.
(intervista di Martina Luise – foto di Alessandro Dobici)