A Gonars, dove le porte di casa e del cuore si spalancano
Nel piccolo paese in provincia di Udine la generosità del parroco, che ha aperto le porte della propria casa ai rifugiati ucraini in fuga dalle bombe, ha innescato una meravigliosa catena di solidarietà che ha coinvolto anche le comunità vicine. Nel solco di una accoglienza che ha radici lontane, che hanno solo ritrovato linfa e vitalità.Un cortile, una grande casa di tre piani e alcuni edifici adibiti a cucina che delimitano il grande parco retrostante: d’estate come d’inverno, questi luoghi si riempiono di bambini e ragazzi. Si presenta così l’oratorio di Gonars, un paesino con meno di tremila abitanti in provincia e diocesi di Udine. Questi luoghi, assieme alla chiesa vicina, sono il “cuore” che irrora di vita la locale comunità cristiana, una vita i cui palpiti superano anche il vicino – più di quanto si possa immaginare – confine con il grande mondo slavo. Come in un grande corpo, dai suoi capillari sparsi fino in Ucraina la vita ha iniziato a fluire a Gonars proprio nel momento in cui là a est hanno iniziato a piovere le bombe dell’invasione russa. Un filo rosso – come il sangue, ma anche come l’amore – unisce Gonars a Irpin, nell’hinterland di Kiev.
Era il mattino del fatidico 24 febbraio quando, sotto i primi terribili boati, Vitàli e Galina, con il figlio disabile Artèm, hanno iniziato una perigliosa fuga verso ovest. Dove andare? È stato il destino – o meglio: la Provvidenza – a prendere in mano quel filo rosso per intesserlo con le pacifiche vicende del paesino del Friuli centrale. Nel loro viaggio verso ovest, Vitàli e la famiglia hanno raggiunto l’Italia dove, tramite l’Associazione “Comunità Papa Giovanni XXIII”, sono approdati proprio a Gonars. Il piano terra di quella grande casa, abitata dal solo parroco don Michele Zanon, ben si prestava ad aprire le porte a una famiglia con un ragazzo in sedia a rotelle. «Siamo cristiani, no? – afferma con spontaneità il parroco di Gonars, don Zanon – E allora dobbiamo trovare lo spazio per tutti». Da quel confine così vicino, presto sono arrivati Natasha, giovane mamma di Anastasia e Dasha; Lilia, mamma di Diana e Anna; Elèna con la figlia Alessia. Evidentemente anche le loro vicende erano intrecciate dal medesimo filo rosso, un navigatore che li ha guidati a loro volta fino a Gonars, da Artèm e i genitori. Undici persone in tutto, una nuova “famiglia” per don Michele e per l’intera comunità di Gonars. La speranza, per tutti loro, è una sola: «Tornare a casa». Nel frattempo il filo rosso li ha condotti a questa, di casa, a pochi chilometri da Udine.
È un omone di quasi due metri, don Michele, un “gigante buono” che si incontra tanto facilmente sul sagrato della chiesa quanto in sella alla sua motocicletta. È parroco di ben nove piccole parrocchie del Friuli, tra le quali il centro principale è proprio Gonars. A proposito di quel filo di colore rosso sangue, il DNA di don Michele è intriso di solidarietà: fin dai tempi del seminario, infatti, quel ragazzone conciliava lo studio teologico con il volontariato in una comunità di persone diversamente abili. Inoltre, la passione per le due ruote, unita a una brillante intuizione pastorale, ha portato don Michele a creare il gruppo dei “Cavalieri delle nubi”, bikers che si ritrovano periodicamente per il classico giro in moto e per un meno canonico – ma ben più profondo – gesto di solidarietà a favore delle missioni in Togo e in Costa d’Avorio. E, dallo scoppio della guerra, anche in Ucraina: a fine agosto, infatti, don Michele e alcuni volontari si sono recati a Leopoli per portare gli aiuti delle sue nove comunità a un orfanotrofio della città.
Eppure nessun filo è privo di una matassa: quello che lega don Michele all’Ucraina è strettamente annodato a ciascuna delle sue nove comunità parrocchiali. «Fin dall’inizio, quando si è sparsa la voce che in canonica a Gonars erano ospitati dei profughi ucraini, è scattata la gara di solidarietà nelle comunità», spiega il sacerdote. C’è chi offre medicinali, denaro, giocattoli e persino biciclette. Anche in questo caso è una questione di DNA: le comunità di questo lembo di Friuli, infatti, da secoli sono segnate da dolorose vicende belliche. Ultima, solo in ordine di tempo, è stata la seconda guerra mondiale, durante la quale alle porte di Gonars il regime fascista costruì un campo di concentramento adibito alla detenzione e allo smistamento di prigionieri politici. Giunto a ospitare fino a 6.000 detenuti, il campo fu smantellato al termine del conflitto. «Con i mattoni delle baracche del campo di concentramento – ci tiene a sottolineare don Michele – gli abitanti di Gonars hanno costruito l’asilo parrocchiale. Qui la comunità sa cosa significa passare dalla morte alla vita». Una vita che continua a fluire nella grande casa canonica e nell’adiacente oratorio e che, da quel “cuore pulsante” di fede e di accoglienza, non smette di irrorare le comunità che vi gravitano attorno. E chi, tra quelle case, trova rifugio.
(testo di Giovanni Lesa – Foto e video di Giovanni Panozzo)