Coi ragazzi del carcere minorile di Bari: tra le crepe filtra la luce
La toccante testimonianza di don Evangelista Ninnivaggi, classe 1982, sacerdote da 17 anni e cappellano nel carcere minorile Nicola Fornelli di Bari. Insieme a lui ci sono un centinaio di volontari di diverse associazioni che si sono presi a cuore il cammino di integrazione e recupero dei giovani reclusi.“Cancelli, metal detector, controlli, chiavi, telecamere. E poi l’incontro con la vita di questi ragazzi. Tutto mi è diventato familiare: senza accorgermene il carcere mi è entrato dentro”.
Non riesce a nascondere la sua emozione in volto don Evangelista Ninnivaggi, classe 1982, sacerdote da 17 anni, cappellano nel carcere minorile Nicola Fornelli di Bari, quartiere Poggiofranco Carrassi, dal 1 maggio 2017, quando racconta la sua esperienza accogliendoci nella parrocchia S. Nicola di Torre a Mare, frazione di Bari, dove è amministratore dall’ottobre 2023.
“Anche per me – continua – si sono spalancate le porte, i cancelli e le sbarre di questo luogo che, giorno dopo giorno, ho imparato e sto imparando a conoscere, a leggere nelle sue dinamiche più profonde, a valorizzare nelle sue complesse contraddizioni, ad abitare nella sua poliedrica e faticosa composizione, ad amare sempre di più e a guardarlo con simpatia, empatia e affetto. So di non incontrare spazi vuoti e realtà ciniche e amorfe, ma
vite spezzate e vulnerate, ferite, bisognose di essere guardate, comprese, amate, accolte, guidate, accompagnate;
umanità lacerate, ma disponibili a lasciarsi toccare e curare da una parola amica, da un abbraccio di speranza, da uno sguardo di compassione e di tenerezza. È un grande dono, una grazia infinita, un singolare privilegio, una lezione di vita autentica”.
Don Evan aveva accettato l’incarico, su richiesta del vescovo Cacucci, con un certo timore, per alcuni pregiudizi e mancanza di esperienza. Poi si è reso conto che la vita in mille pezzi ha bisogno di pazienza per recuperare ciò che si è perso, per rimettere in piedi ciò che si è distrutto.
“È impossibile dimenticare i ragazzi che passano dalle tue mani, uno per uno – prosegue – dopo che hai ascoltato dolore e disperazione. E penso alle parole di D. Bonhoeffer: «Dio è vicino a ciò che è piccolo, ama ciò che è spezzato. Quando gli uomini dicono perduto, egli dice trovato, quando dicono condannato egli dice salvato, quando dicono abietto Dio esclama beato». Il carcere, ritenuto spesso una discarica sociale, non può e non deve essere solo un luogo emarginante dove scontare una pena, per me è diventato in questi anni uno spazio umano dove le ferite inferte e ricevute, sono chiamate a lasciarsi attraversare dalla Luce che entra dalle crepe; un contenitore antropologico, uno spazio fecondo di vita attiva dove affinare il pensiero, il dialogo e l’ascolto, un tempo per fare memoria e prendere consapevolezza di sé, un laboratorio di umanità, un cantiere dove attivare processi di cambiamento e far ripartire delle vite fragili, sempre bisognose di nuovi e coraggiosi stimoli. Qui, in carcere, ho toccato con mano che le situazioni e le storie di morte contengono germogli di resurrezione, semi di vita e di rinascita. Mettendomi in ascolto paziente delle loro storie, delle loro vite ferite, delicate e stupende, accogliendo i loro vissuti profondi, asciugando le loro lacrime, interagendo con i loro silenzi, le loro delusioni, le loro paure e le loro pene sottili. Cercando di farmi spazio nei reconditi abissi dei loro cuori ho compreso che noi Chiesa abbiamo una missione profetica che non possiamo tradire, rimandare:
diventare prossimo, stare con loro, senza troppe domande, senza giri di parole, ascoltare, restituire speranza a partire da quella privazione di libertà”.
Nel carcere Fornelli operano 95 volontari e diverse associazioni: Rinnovamento nello Spirito, Fratello Lupo Onlus, I Briganti di Michele Magone, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, i salesiani. Un’esperienza sinodale, soprattutto di ascolto, uno stile di vita che lascia impronte.
Cristiana Negro, 53 anni, barese, è socia de I Briganti di Michele Magone, lavora nella cooperativa Semi di vita di Valenzano, che si occupa di agricoltura sociale all’interno del carcere. “Sono terziaria francescana – racconta – e il mio avvicinamento al mondo del carcere è stato casuale. Operavo tra i senza fissa dimora, poi un frate mi propose il volontariato in carcere, che non era affatto nei miei programmi. Ho quei sorrisi stampati nel cuore, come gli abbracci dei ragazzi, seduti in cerchio per terra a meditare sul Vangelo. La mia presenza tra loro è quasi quotidiana, tra cooperativa e casa circondariale”.
I ragazzi sono impegnati in corsi di formazione e in laboratori manuali oltre il recupero scolastico: laboratori di falegnameria, biscotti, panificazione, essiccazione di pomodori e coltivazione di funghi con la cooperativa sociale Semi di vita, saponette e ceramica. Al pomeriggio riposo, la sera i meno giovani – il carcere ospita fino a 25 anni di età – lavorano, sono consentiti spazi personali di libertà vigilata e videochiamate o colloqui mensili con parenti.
Giuseppina Bruno, avvocato, 41 anni, è invece socia di Fratello Lupo, risiede a Valenzano e afferma di avere avuto come mentore dal 2012 Cristiana. “Il mio percorso di studi – dichiara Giuseppina – mi ha portato ad avvicinarmi al pianeta giustizia, la mia fede cristiana agli ultimi. I minori autori di reato sono vittime doppie di una realtà familiare che non li ha tutelati; non riescono a inserirsi nel tessuto sociale e noi abbiamo il dovere di creare le condizioni per una società più accogliente. Quanto alla tipologia dei reati commessi, questa è caratterizzata in prevalenza dai reati contro il patrimonio – in particolare furto e rapina – nonché dalle violazioni in materia di sostanze stupefacenti; nei reati contro la persona primeggiano le lesioni personali volontarie e l’omicidio. La maggior parte dei ragazzi sono pugliesi, alcuni di altre nazionalità, e sono in custodia cautelare. Il sistema di giustizia minorile non persegue solo finalità di repressione, ma di recupero sociale. Noi tutti siamo responsabili del loro futuro, nel senso che non possiamo cambiare il loro passato o il contesto da cui provengono, ma dobbiamo recuperarli, responsabilizzarli, e mai interrompere quel processo educativo in atto, ponte tra interno ed esterno al carcere. La fiducia è in quella relazione autentica che s’instaura, in quelle carezze e confidenze, in quei segreti custoditi, in quella normalità a loro negata, che è preludio di libertà”.
“A tutti è offerto il perdono di Dio – conclude don Evan – per un’esistenza nuova e significativa. Questi ragazzi, entrati nel circuito penale, hanno dei vissuti molto duri alle spalle: dietro di loro l’assenza di una famiglia e punti di riferimento, famiglie problematiche e con precedenti penali. Cambiare si può, si deve. Il carcere è un luogo di vera evangelizzazione, un luogo teologico dove la terra e il cielo si incontrano, le luci e le ombre si fondono, le contraddizioni e le forze si stemperano, le ali celesti della libertà e il grigio metallo delle sbarre convivono. Il carcere può essere luogo di promozione umana se si riesce a cogliere la presenza di Cristo in ognuna di queste creature. Nell’inquietudine di questi giovani, segnati e scavati dal malessere ho capito che sentirsi amati veramente per quello che si è porta a cambiare vita; in questi pochi anni di servizio sono stato spettatore di miracoli, ho toccato la Grazia, ho potuto scorgere l’incarnazione del Vangelo, come risposta concreta ai bisogni della gente, soprattutto di quelli tagliati fuori.
La pastorale carceraria è pastorale comunitaria,
di chi educa alla giustizia riparativa: dobbiamo formare le nostre coscienze e le nostre comunità prima di tutto al perdono, alla riconciliazione, all’accoglienza e all’inclusione, per sviluppare la cultura del dono, la grammatica dell’amore e l’alfabeto della solidarietà. Nel carcere dove offro il mio servizio c’è una cappella tra le stanze dei ragazzi ristretti, dove risiede il Detenuto per eccellenza…nostro Signore! Qui avviamo percorsi di catechesi e di formazione alla vita cristiana e ai sacramenti. Qui con loro riscopriamo la preghiera che passa attraverso l’umanità lacerata”.
(di Sabina Leonetti – foto gentilmente concesse da don Evangelista Ninnivaggi)