Dossier. I verbi del Giubileo (1): APRIRE
Questo dossier è il primo di una serie di quattro che abbiamo scelto di dedicare ai verbi del Giubileo. Ci accompagna in questo itinerario don Gianluca Zurra, presbitero della diocesi di Alba, docente di teologia presso la facoltà teologica di Torino e l'ISSR di Fossano (CN).
Secondo le Scritture, l’indizione del Giubileo si inserisce nell’esperienza biblica dell’accompagnamento di Dio, che educa il suo popolo a liberarsi dalla tentazione ricorrente dell’idolatria. Inaugurare un tempo in cui l’intera esistenza viene riconsegnata al primato della misericordia divina, significa restituire all’umano la sua dignità, nel giusto rapporto con il creato, con le cose, con la socialità, emancipandolo dalla fascinazione illusoria dell’idolo, che porta sempre con sé immagini di violenza e di sfruttamento. Far riposare il terreno (cfr. Es 23, 10-11), tenere per sé solo ciò che serve per il sostentamento (cfr. Lv 25), rimettere i debiti in modo che vengano guarite le disuguaglianze sociali (cfr. Dt 15) è fare memoria di come la terra sia un dono e non un possesso, abitandola così come forestieri e mezzadri e non come padroni. In altri termini, il racconto biblico mette progressivamente in crisi ogni immagine dispotica del divino, a cui l’idolo si appiglia per legittimare la propria richiesta di sottomissione, a favore di un’impensata affezione di Dio che coinvolge la libertà della sua creatura nel dare forma buona e giusta al vissuto del mondo.
Occorre, dunque, che l’anno giubilare non sia ridotto ad una parentesi, ad un grande evento o ad una celebrazione fine a sé stessa, ma sia vissuto come tempo favorevole per un cambio di rotta interiore, ecclesiale e sociale, a partire dai contesti e dagli ambienti ordinari della vita. Ci soffermiamo, in questi quattro dossier, su alcuni verbi tipici del Giubileo, che educano a stare dentro la storia secondo l’amorevole affezione di Dio per l’umanità, smascherando le idolatrie di turno (economiche, politiche o imperialistiche) e lasciandole senza la proverbiale terra sotto i piedi: statue solo apparentemente potenti, ma in realtà fragili e senza fondamento.
Aprire porte
Il primo verbo è “aprire”: richiama il simbolo giubilare della porta. Attorno a questa azione si gioca gran parte della vita umana. Veniamo al mondo perché si apre un grembo, impariamo l’arte del vivere insieme perché si aprono in modo inaspettato porte amichevoli e ospitali attraverso le relazioni quotidiane. Viceversa, “ricevere una porta in faccia” significa sperimentare il disprezzo, l’incomprensione. “Avere una porta che si apre o che si chiude” è l’espressione efficace per indicare un’inedita possibilità di futuro o, purtroppo, una totale mancanza di speranza. L’ospitalità si gioca sulla porta, nasce dal modo con cui si è invitati a entrare o si esce per incontrare. Le porte chiuse, sbarrate, dividono e allontanano; la mancanza di porte, all’opposto, confonde la disponibilità all’incontro con l’invadenza, cancellando ogni forma di discrezione. Lo strato sottile della porta tiene insieme la benedizione dell’apertura che fa vivere, accompagnata dal dialogo e dall’ascolto sincero, e la preziosità del mistero che custodisce, segnalando che non c’è vera prossimità senza il riconoscimento di una sana distanza, o marginalità, che invoca sempre di chiedere permesso.
Saper gestire bene le porte richiede, dunque, un grande allenamento e una profonda saggezza interiore. Non basta aprirle: occorre saperlo fare bene, perché sulla soglia, benefico “intervallo” tra la strada e la casa, si costruisce la benedizione di relazioni buone e giuste. La violenza è assenza di porte, di limiti, di rispetto; la discriminazione è la chiusura sistematica e programmata di ogni serratura, una porta “che non porta” da nessuna parte. La giustizia dei legami, invece, è una porta socchiusa, che sa custodire la discrezione e la gentilezza come condizioni di una reciproca ospitalità. La speranza ultima, infine, è che anche il morire non sia un muro senza aperture, ma ancora una volta una porta piccola, stretta, certamente scomoda, ma aperta verso la vita che verrà.
Gesù è la porta
Secondo il Nuovo Testamento, una delle poche metafore con cui Gesù si identifica è l’immagine della porta: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (cfr. Gv 10, 9). Degna di nota è la dinamicità che scaturisce da questa “incarnazione edile”, ben lontana dai palazzi inarrivabili dei potenti e dalla sacralità lontana dei templi, per presentarsi, invece, in forma domestica e accessibile: Il Figlio di Dio si fa uscio, ingresso, soglia di casa, perché chiunque vi possa trovare posto, riparo e pascolo. L’esistenza cristiana non è fuga dal mondo, ma attraversamento del mondo entrandovi come Gesù vi è entrato o, meglio, attraverso la porta che è Lui. Dovunque ci sia mancanza di ingressi ospitali e di uscite liberanti, la differenza è fatta dalla presenza, nello Spirito, del Figlio di Dio, che facendosi porta con il suo stesso corpo donato rende possibile a chiunque il giusto andirivieni che moltiplica e salvaguarda la vita.
È presumibile che i discepoli, radunati in casa a porte chiuse dopo la morte del loro Maestro, abbiano riconosciuto il Risorto grazie al suo stile inconfondibile nell’ aprire le porte (cfr. Gv 20, 19-29): in modo discreto, non invadente, ma al tempo stesso deciso e coraggioso, a tal punto da rotolare via la pietra pesante del sepolcro e da riaccendere la fede di Tommaso grazie ad un inedito gesto di apertura: offrire al tocco le ferite aperte della crocifissione rivela un legame suggestivo con il corpo aperto, ospitale, pronto a uscire che dovrebbe caratterizzare in ogni tempo e in ogni luogo la Chiesa nata dalla Pasqua.
Custodi di soglie
Il primo verbo giubilare, dunque, chiede alla comunità ecclesiale di essere, nella socialità umana, “custode di soglie”, non per respingere e controllare, ma per aprire e accompagnare e, al tempo stesso, per proteggere i legami degni dell’uomo da ogni atteggiamento invadente o abusante. La testimonianza cristiana si dovrebbe percepire dal modo con cui si aprono le porte: non per far venire il mondo intero dentro il proprio recinto, cosa per altro impossibile, ma perché, uscendo, la notizia liberante del Vangelo sia riconosciuta come bene comune e accomunante.
L’apertura della porta giubilare è così una memoria rivolta anzitutto alla Chiesa, perché non si riduca ad un circolo chiuso, sbarrato, dotato di ingressi che si aprono esclusivamente con la parola d’ordine o tramite una combinazione di sicurezza consegnate a pochi adepti. La porta che è Gesù chiede alla fraternità dei discepoli di non esistere per sé, ma di impegnarsi, con chiunque abbia ancora passione per questo mondo, a proteggere l’umano e la sua fragilità custodendo le soglie, perché avvengano passaggi di vita inaugurali, delicati, sapienti, liberanti, fecondi. La fede in Gesù come porta che apre nuovi sentieri non può essere proprietà privata di qualcuno, ma tesoro prezioso da spendere a favore di tutti, abilitando i sensi alla qualità buona di parole e gesti che sanno aprire senza invadere, ospitare senza sequestrare, dialogare senza confondere. L’annuncio evangelico non può esistere senza il suo legame originario con il gesto artigianale di una manualità che sa fare bene le cose, partendo dalla giusta pressione sulla maniglia, vera e propria forza spirituale in grado di accendere, sulla soglia, il riscatto di ogni creatura.
È una prima grande conversione giubilare, il cui tratto profetico accelera la guarigione dalle forme di chiusura discriminante e da ogni tipo di invadenza violenta. Non c’è bisogno di muri o di stanze senza uscita, né di piazze anonime senza ingressi. Nessuna delle due soluzioni ricostruisce la socialità, ma perpetuerebbe pericolose solitudini nel primo caso o confusioni senza direzione nel secondo. Occorre invece moltiplicare le porte socchiuse, accompagnandole con mani addestrate per aprirle bene, affinché chiunque possa “entrare, uscire e trovare pascolo”, custodendo la propria singolare dignità e tornando a edificare insieme la casa comune. Il Risorto passa di lì; e per la Chiesa basta e avanza per poter gioire ed esserne riconoscente.
Gianluca Zurra