Ad Andria, nella masseria dove si riassapora la vita
I sogni di don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli sono diventati il sogno di una intera comunità diocesana, che ha ridato vita a un antico casolare abbandonato facendolo diventare luogo di riabilitazione e reinserimento per decine di detenuti ed ex detenuti. Il progetto "Senza sbarre" e la cooperativa "A mano libera".Galera, carcere, prigione, gattabuia, istituto penitenziario, casa di reclusione. Fra tutti i sinonimi che ogni epoca ha coniato per il luogo deputato a limitare la libertà personale certamente non c’è la parola “masseria”.
Ed è proprio traendo spunto da una preziosa testimonianza del magistrato Giannicola Sinisi che arriviamo alla masseria S. Vittore, in agro di Andria. Qui si respira l’aria pura dell’Alta Murgia, alle pendici di Castel del Monte, sapori dell’orto e della frutta, antiche fragranze di grano, prodotti della terra e dell’allevamento, su otto ettari di superficie. Ma è soprattutto il profumo del servizio e del riscatto che avvolge la comunità “Amici di San Vittore” grazie al progetto “Senza Sbarre” della diocesi di Andria, finanziato da Caritas Italiana nel 2017 con 200mila euro provenienti dai fondi dell’8xmille.
Un progetto portato avanti con il contributo di imprenditori privati, ristoratori e associazioni, in particolare “Amici per la vita”: partite di solidarietà, teatro, concerti, mercatini, per contribuire a realizzare le misure alternative al carcere, previste dalla legge. Sostenuto fortemente dal vescovo Luigi Mansi, “Senza Sbarre” nasce su iniziativa di don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli, da anni impegnati nel volontariato in carcere.
“Un sogno diventato realtà – commenta mons. Mansi –:
fare di più per sostenere i nostri fratelli che, pur avendo compiuto errori tali da incorrere nelle maglie della giustizia, manifestano il desiderio sincero di restituirsi alla vita familiare e sociale”.
La masseria “San Vittore”, proprietà della diocesi pugliese, un tempo florida masseria della famiglia Azzariti, dismessa alcuni anni fa dalla comunità di recupero per tossicodipendenti guidata da don Gelmini, versava in stato di completo abbandono ed è tornata ad essere un luogo di fiducia e di speranza. Dispone di stanze per l’accoglienza, di cucina, comuni, uffici, una chiesetta e un piccolo alloggio per i due sacerdoti. Una parte dei fabbricati, poi, viene utilizzata per l’attività lavorativa.
Nel 2018 è nata anche una società cooperativa sociale denominata “A mano libera”, che impiega detenuti ed ex detenuti nella produzione di pasta fresca e taralli. I prodotti sono realizzati con materie prime naturali di qualità e a kilometro zero.
Tutte le risposte ai bisogni degli utenti sono coordinate da una équipe socio- educativa e integrate fra tutti gli operatori, sia del Ministero della giustizia che degli enti locali. I detenuti curano i campi e gli animali, producono pasta fresca, taralli, pane e focacce cotte a legna, manutengono le strutture, trasformano i prodotti agricoli e li vendono, si curano del verde e del giardino della chiesa, ma anche delle zone pubbliche nei dintorni di Castel Del Monte. Partecipano agli eventi, alla formazione, alla celebrazione eucaristica e alla preghiera comunitaria.
Semiresidenziali, semiliberi, affidati, messi alla prova, in permesso premio, nelle diverse forme di libertà condizionale o vigilata, liberi in sospensione della pena in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza: qui si attuano tutte le misure alternative al carcere e sarebbero tutte storie da raccontare.
Come quella di Riccardo, 50 anni, due figli, di cui uno calciatore, una moglie malata, carpentiere prima di delinquere, ma anche pittore. “Questa comunità – confida – mi ha ridato l’aria che mi tolgono le sbarre. Qui il lavoro è incessante e il tempo passa in fretta, mentre le ore in carcere sono interminabili. Serve una volontà ferrea per cambiare, ma anche gli incontri giusti”. Ha progetti per il futuro: riprendere il suo mestiere in azienda per dare credibilità ai suoi figli.
E poi Roberto, 70 anni, ergastolano, due figli, nonno. Specializzato termoidraulico, ma anche autista di tir, sconta da 50 anni la sua pena. Di macerie ne ha viste tante nella masseria S. Vittore, scavata pezzo per pezzo, come le stratificazioni della sua esistenza. La sua forza? La moglie, che non l’ha mai lasciato, ed è rimasta al suo fianco nella buona e nella cattiva sorte.
“È questa la Chiesa in uscita: nitido esempio di interazione tra liturgia e azione” – spiega don Riccardo Agresti – perché è la comunità che deve farsi carico delle fragilità”. E lui lo sa bene, dopo oltre 25 anni in un quartiere difficile di Andria (Croci-Camaggio) e poi trasferito come parroco nella Chiesa S. Luigi, meglio conosciuta come S. Maria al Monte: desolata nel gelido inverno, d’estate popolata di villeggianti, anch’essi ormai partecipi delle attività della masseria.
Rieducare, reinserire, riconciliare: guarire la società dal dolore dei delitti impone uno sforzo di riconciliazione.
“È un progetto di Dio – aggiunge don Riccardo – dove uomini incoscienti, a partire dal nostro vescovo che si è fidato di persone inadeguate come me e don Vincenzo, hanno avuto tra le mani un’opera strategica per far capire che la Parola di Dio deve diventare carne. Dobbiamo andare incontro alla carne sofferente e superare la mentalità dello stigma che chi ha sbagliato deve pagare per sempre. L’uomo non è il suo errore, ripeteva don Oreste Benzi. Il Progetto senza Sbarre non dà onori, ma solo oneri – continua don Riccardo. Quando, calato in questa nuova realtà, sono stato tentato di andarmene, il richiamo per me è stato il libro di Rut, con la fedeltà di lei alla suocera Noemi. Con il Signore Dio ci si stupisce sempre: anche quando ci sono buio, solitudine, mormorazione, dobbiamo cogliere i segni della bellezza, della meraviglia, della grandezza. Ed è per questo che ha senso l’orto della riparazione, dove sono stati piantati 20 alberi di ulivo. Ognuno dei condannati simbolicamente ha comprato un alberello e il ricavato, il frutto, sarà un segno della necessaria riparazione verso le vittime. È la mentalità che deve cambiare. Più che tenerli in carcere a nutrire idee di morte, dobbiamo alimentare vita, generando mediatori di pace tra le vittime. Il carnefice deve piegarsi, la vittima non deve essere esclusa dal processo né dall’incontro con chi le ha fatto del male. Dobbiamo colmare questa distanza storica, culturale e spirituale.
Oggi l’ultimo rudere attende di essere restaurato, per l’edificazione di un mulino in pietra: farina con grani antichi, il grano grezzo dell’inclusione, molto più pregiato. Saranno creati anche alloggi per i volontari o per chi vuole fermarsi a conoscere il mondo carcerario. La Provvidenza che ha ispirato questo percorso di rinnovamento – conclude don Riccardo – continui a trovare gente pronta a sporcarsi le mani nell’accogliere quegli scarti, che per noi sono pietre angolari per rendere vivo il Vangelo.”
(di Sabina Leonetti – foto gentilmente concesse dalla comunità “Amici di San Vittore”)
Nel 2018, eravamo già stati a visitare questo progetto, ma ancora non era diventato quello che è oggi. Ecco il video-racconto realizzato allora da Giovanni Panozzo.