Dossier. Don Fabio Rosini: come digiuna un cristiano?
Don Fabio Rosini, biblista e sacerdote molto conosciuto per le sue catechesi, ci aiuta a comprendere cosa è veramente il digiuno per un cristiano e sgombra il campo da letture equivoche e fuorvianti che vorrebbero ridurlo a una mera "rinuncia" a mangiare.Quando si parla di digiuno è opportuno procedere a una manovra fondamentale per affrontare questo e molti altri pilastri della vita cristiana: sdoganarli da uno stato di falsificazione.
Chi scrive impiega la maggior parte del suo ministero in questa operazione di ‘recupero oggetti contraffatti’. Oggi evangelizzare è soprattutto demistificare.
La fede è molto più di una attività umana, è una virtù teologale. Avendo però l’ansia di capire le cose, mettiamo tutto dentro la scatola limitata del nostro cranio, e facciamo del cristianesimo qualcosa di orizzontale, a misura della nostra apertura alare, che copre distanze a portata del nostro passo.
Allora la fede diventa una convinzione, la speranza una questione di carattere positivo e la carità una filantropia volontarista. Così la vita cristiana diventa coerenza e la salvezza diviene impegno.
Di conseguenza il digiuno diviene rinuncia.
La reazione tipica dell’ascoltatore medio alla proposta di una disquisizione sul digiuno, infatti, è: sottile svilimento, ammosciamento dello sguardo e latenza di pensieri di tipo: “Lo sapevo, fuori c’è l’Agenzia delle Entrate, in Chiesa c’è questa roba. È il momento della tassa”.
Vediamo di scrollarci di dosso questo antropocentrismo opprimente che riduce la sapienza cristiana alle pedagogie della signorina Rottermeier.
Anzitutto il digiuno cristiano non è rinuncia, come non lo è l’elemosina e men che meno lo è la preghiera.
Nel momento in cui Gesù pratica il digiuno fa discorsi strani del tipo:
«Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).
Oppure:
«Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete… il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,32ss).
Quindi Gesù non parla propriamente di digiuno nel senso di astensione dal cibo ma di un’altra forma di nutrimento, che non è “solo pane” ma “cibo che voi non conoscete”. Mangia, quindi. E mangia pure meglio, a suo dire.
Di cosa parliamo? Del tema della voracità, comunemente definita per la sua parte anatomica: la gola.
Secondo i padri del deserto il vizio corrispondente ha un suo posto preciso nel disordine umano, e, per esempio, Evagrio Pontico, monaco del quarto secolo, dice: «Principio delle passioni è la gola» (Sentenze. Gli otto spiriti della malvagità, Città Nuova Ed., Roma 2010, pag. 79).
Significa che tutto il sistema del male umano ha inizio con la voracità. Infatti il primo peccato, quello di Adamo ed Eva, è, concretamente, un peccato di gola. I progenitori biblici sgarrano la dieta, la quale prevedeva molti altri alberi – che, peraltro, erano parimenti belli da vedere e buoni da mangiare (cfr. Gen 2,9) – e mangiano l’unico frutto vietato.
Allo stesso modo la gola si presenta come la prima tentazione patita da Cristo – richiamata poc’anzi – e consiste nell’istigazione a mangiare in modo disordinato, ossia nel pretendere che le pietre debbano diventare pane. È l’assolutizzazione dell’appetito: se sei figlio di Dio, quando hai fame devi essere soddisfatto, le cose devono appagarti, quindi un sasso deve diventare un panino, perché ‘tu…hai…fame!!!’.
Così dicendo focalizziamo l’attitudine fondamentale della gola, marcata dalle prerogative della prima fase infantile, detta anche fase orale. La voracità è infantilismo e drammatizzazione degli appetiti che fa scivolare la persona in una condizione che è l’assolutizzazione delle pulsioni.
Quest’ultima è tale da imprimersi globalmente, per cui in tutti gli altri peccati c’è sempre una latenza di questa passione. La lussuria, per esempio, è un peccato derivato: è niente altro che la voracità della dimensione sessuale-affettiva.
Bisogna prendere atto che tutte le dipendenze sono la degenerazione di un piacere qualunque in schiavitù, e obbediscono alle logiche della voracità.
Pensiamo alla dimensione della dipendenza da comfort, che è sempre nell’ambito della gola in quanto ricerca di appagamento e rende la persona incapace di affrontare le scomodità e i combattimenti della vita. Ricordiamo che la parola guerra, in latino bellum, genera l’aggettivo “imbelle” che è colui che non sa affrontare i problemi, le guerre di ogni tipo, definito, più comunemente, “imbecille”. Crescere un bimbo rendendogli tutto facile e risolvendo tutti i suoi problemi, vuol dire crescere un imbecille. Qualcuno fa così. Complimenti.
Sono solo poveri esempi, il campo è assai vasto.
Evitare di fronteggiare il tema della voracità e delle dipendenze da appagamenti, vuol dire condannarsi ad una condizione infantile e incompiuta, estranea all’amore e alla paternità/maternità: chi non passa dal nutrirsi al nutrire è un eterno figlio; chi non passa dalla ricerca del piacere alla cura di chi ha accanto non è solo un bimbo egoista, è soprattutto un infelice, perché solo l’amore vero dà felicità vera.
Mentre noi intendiamo la lotta contro la voracità come auto-castrazione, Cristo parla di questo combattimento come auto-compimento.
La gola è legata a un bisogno naturale che come tale non può essere negato; infatti non si tratta di negare ma di compiere, realizzare.
Nascosta dentro gli appetiti naturali c’è la fame di quel che soddisfa veramente. Vediamo come Cristo parla del digiuno:
«Quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,16-18).
Gli ipocriti hanno una ricompensa che consiste nella vana immagine che danno di sé, mentre i discepoli sperimentano ben altra ricompensa: il Padre e le sue sorprese.
Non si tratta di non mangiare, ma di mangiare meglio.
È bello appagarsi? Molto più bello amare.
È bello togliersi una soddisfazione? Molto più bello dare consolazione.
È bello abbuffarsi? Molto più bello sfamare.
(Fabio Rosini)