Dossier. Gesti e parole, l’autenticità della celebrazione
Passata la pandemia, qualcuno sta faticando a ritrovare la gioia e il gusto della celebrazione in presenza, l'unica vera e piena forma di partecipazione liturgica. Per questo abbiamo chiesto al decano della facoltà di Teologia dell'Università Lateranense, don Angelo Lameri, di aiutarci a comprendere meglio quali elementi rendano una celebrazione autentica e valida.Penso sia capitato a molti di partecipare a una celebrazione liturgica ed essersi imbattuti in qualche “stranezza”. A volte qualche battuta del sacerdote, a volte un canto non sempre capace di innalzare il cuore e lo sguardo verso Dio, a volte qualche gesto introdotto arbitrariamente e giustificato con spiegazioni a dir poco fantasiose. Prendiamo a titolo di esempio certe processioni con i doni all’offertorio, accompagnate da cervellotiche didascalie che rivelano l’evidente imbarazzo di chi deve spiegare, e quindi rendere ragione ai presenti, del perché per la celebrazione dell’Eucaristia, che elementari nozioni bibliche associano immediatamente al pane e al vino, sia necessario portare all’altare palloni, scarpe, magliette, Bibbie, mattoni, megafoni o quant’altro.
Purtroppo, a volte, le “stranezze” arrivano a toccare la sostanza del rito dei sacramenti suscitando il dubbio sulla loro validità. È capitato che Vescovi e la stessa Santa Sede siano dovuti intervenire per chiarire situazioni e, in alcuni casi, a dover far ripetere la celebrazione. Per questo motivo lo scorso febbraio, su mandato di papa Francesco, il Dicastero per la Dottrina della Fede ha pubblicato una Nota dal titolo Gestis verbisque, sulla validità dei sacramenti, per precisare alcuni punti fermi e fornire alcuni criteri di carattere generale e fondante per valutare se e per quali motivi certe distorsioni del rito possano rendere invalido il sacramento amministrato da sacerdoti con eccessiva creatività.
La Nota non vuole innanzitutto condannare, ma cercare di capire le motivazioni di certi interventi manipolatori, per correggerli e riportare la riflessione su un terreno teologicamente fondato. Leggiamo al n. 3: «In talune circostanze si può constatare la buona fede di alcuni ministri che, inavvertitamente o spinti da sincere motivazioni pastorali, celebrano i sacramenti modificando le formule e i riti essenziali stabiliti dalla Chiesa, magari per renderli, a loro parere, più idonei e comprensibili». Il primo malinteso sta proprio qui. Si pensa che il compito del pastore sia sempre e comunque quello di “insegnare” qualcosa, anche attraverso la liturgia. Certamente la celebrazione liturgica ha anche un valore pedagogico e didattico, ma non può essere ridotta a quello. Non possiamo applicare alla liturgia lo schema: contenuto da trasmettere – modalità/linguaggio con il quale trasmetterlo. In questo caso nel sacramento sarebbe importante la realtà significata, cioè la grazia soprannaturale, il segno avrebbe solo valore di rimando e dunque, in determinati contesti, sarebbe legittimo intervenire su di esso per renderlo maggiormente comprensibile e favorire in questo modo una partecipazione più consapevole. Non è estraneo a questa posizione un certo neo-gnosticismo, che riduce la salvezza a realtà puramente interiore, a idea, per cui importante è ciò che raggiunge l’intelletto, «dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium, 94). In questa prospettiva il rito è funzionale alla conoscenza e può quindi essere adattato in modo da favorirla. In realtà, come scriveva il grande teologo Romano Guardini «La liturgia non riguarda la conoscenza, ma la realtà […]. Non è facile oggi parlare di questo, in quanto la liturgia è scomparsa dalla nostra coscienza religiosa. Però la liturgia stessa non è pura conoscenza, ma piuttosto piena realtà, e, accanto al conoscere, comprende anche altro: un fare, un ordine, un essere» (Formazione liturgica, p. 17). La partecipazione alla liturgia allora non è riducibile alla sola comprensione di segni e gesti, ma è un essere partecipi all’atto di Cristo e della Chiesa.
Nella celebrazione dei sacramenti l’atto di Cristo e della Chiesa deve essere però riconoscibile. Ecco perché la Nota rimanda ad alcuni elementi essenziali: la materia, la forma e l’intenzione del ministro. Elementi della tradizione, riletti alla luce del magistero conciliare. La materia infatti è considerata innanzitutto come l’azione umana nella quale agisce Cristo (n.13). L’acqua versata sul capo del battezzando e la formula trinitaria ci rimandano per esempio al comando di Gesù di battezzare. La materia/azione radica il sacramento e l’agire simbolico nella corporeità e lo inserisce nell’ordine simbolico della creazione. La mediazione simbolica non può prescindere dalla natura e dagli elementi in cui risuona ancora oggi la parola creatrice di Dio. La forma trasfigura la materia e inserisce il sacramento nella storia (n. 14). È infatti narrazione di ciò che avviene e al tempo stesso rimando all’evento originario, che è sempre collocato all’interno della storia dell’uomo. Materia, corporeità, azione, parola: si capisce così perché una liturgia autentica implica una presenza fisica. Un’azione vista in televisione o sul proprio computer non crea comunione, non può raggiungerci nel nostro corpo. La liturgia infatti non è solo vedere e ascoltare, ma anche toccare, sentire profumi, gustare sapori… L’intenzione riconduce poi la celebrazione alla sua ecclesialità. Nella celebrazione dei sacramenti il ministro non agisce come padrone degli stessi, ma si pone a servizio di Cristo e della Chiesa. Il soggetto della celebrazione sacramentale infatti è sempre la Chiesa tutta, il corpo unito al suo Capo. L’intenzione di agire nella comunità ecclesiale non può essere però solo interiore, perché la liturgia parla attraverso il corpo. Questo ci porta a dire che il rispetto delle norme liturgiche non è una rigida ripetizione di imposizioni che vengono dall’esterno, ma amore della comunione ecclesiale. Insegna papa Francesco: «Non si tratta di dover seguire un galateo liturgico: si tratta piuttosto di una “disciplina” – nel senso usato da Guardini – che, se osservata con autenticità, ci forma: sono gesti e parole che mettono ordine dentro il nostro mondo interiore facendoci vivere sentimenti, atteggiamenti, comportamenti» (Desiderio desideravi, 11). Così, quasi per paradosso, l’obbedienza a delle norme diventa fonte di libertà: «la celebrazione liturgica ci libera dalla prigione di una autorefenzialità nutrita dalla propria ragione o dal proprio sentire: l’azione celebrativa non appartiene al singolo ma a Cristo-Chiesa, alla totalità dei fedeli riuniti in Cristo» (Desiderio desideravi, 19).
Come penso tutti abbiamo compreso, non si tratta qui di ridurre la celebrazione dei sacramenti alle sole parti definite essenziali, ma, di inserirle nell’ampio respiro dell’intera celebrazione e nell’interazione dei soggetti umani che vi agiscono, sempre come ministri della grazia di Cristo. Materia, forma e intenzione possono essere paragonate ai temi melodici che caratterizzano le opere dei grandi compositori (J. S. Bach, A. Vivaldi, W. A. Mozart, J. Brahms, per citarne solo alcuni) per cui diventano facilmente riconoscibili. Come il tema riconduce l’ascoltatore alla composizione che ne è caratterizzata, così gli elementi ad validitatem riconducono l’intera celebrazione all’azione salvifica di Cristo, facendone riconoscere l’Autore. Al tempo stesso però il solo tema non è la sinfonia e quindi gli elementi essenziali non possono esaurire la celebrazione dei sacramenti, che da essi riceve la sua autenticità, ma che in essi non può esaurirsi.
Angelo Lameri
Pontificia Università Lateranense
Per approfondire l’argomento si può leggere “Sulla validità dei sacramenti. Spunti di riflessione” di Angelo Lameri (Edizioni San Paolo, 2024)